• Sab. Gen 25th, 2025

FARAFINA'S VOICE

"La cultura non fa le persone. Sono le persone a fare la cultura. Il razzismo non dovrebbe esistere, però non vinci un biscotto se lo combatti" - Chimamanda Ngozie Adichie

Un recente post facebook di We African Nation si intitolava ” Ci sono almeno 1000,000 africani nel profondo oceano Atlantico”. ” Questi non erano americani, braziliani o jamaicani – continua il post – erano donne e uomini Yoruba, Fulani, Igbo, Ashanti, Akan, Mandinka, che furono gettati in mare dagli schiavisti europei o perché malati o perché indisciplinati… Furono dati in pasto agli squali. Non ho mai sentito un governo o un popolo, specialmente dell’Africa occidentale commemorare queste anime perse. Ma ogni anno vedo stati africani partecipare in altre commemorazioni come il genocidio armeno, l’Olocausto etc. Non c’e da meravigliarsi se questi stati siano maledetti. Andate a placcare le anime del vostro popolo e ricordatevi di loro”.

Tutti i libri di storia trattano del periodo del colonialismo e dell’imperialismo, dei motivi che spinsero i bianchi ad andare oltre i loro confini e di quello che una volta giunti nei paesi colonizzati facevano. Ma quasi nessuno parla di come i neri venivano rapiti dai loro villaggi da schiavisti neri, spogliati della loro dignità, incatenati uno dietro l’altro e costretti a camminare per giorni, settimane e mesi per giungere a Cape coast.
Camminavano giorno dopo giorno, uno dietro all’altro, scortati dagli schiavisti neri e ad ogni sosta aumentavano di numero. Erano così tanti che avrebbero potuto essere il popolo di un intero villaggio. Alcune tra le donne rapite, erano incinte e partorivano strada facendo. I più deboli di salute morivano di stanchezza o di fame. Una volta giunti sulla costa, le donne venivano separate dagli uomini e ogni gruppo stipato in stanze sotterranee di un castello ad aspettare nudi, sanguinanti, stanchi e affamati. Quelle stanze, dal pavimento duro, che emanavano odore di urina e defecazioni, avevano ospitato altri tanti neri spaventati. Dopo giorni di attesa in cui l’unico contatto con l’esterno era una minuscola fessura da cui entravano raggi di sole e da cui potevano vedere la luna e la porta d’entrata attraverso cui le guardie di tanto in tanto gettavano loro cibo. Dopo qualche giorno di attesa i nostri antenati venivano lavati con acqua calda dalle donne nere a servizio degli schiavisti, la loro pelle spalmata di olio di palma per renderla luminosa e farla sembrare sana. Dopo la pulizia del corpo, gli schiavi venivano fatti mettere in fila per la marcatura: uno dopo l’altro venivano marchiati sul petto con un ferro rovente. Nessuno di noi oggi può immaginare il dolore lacerante di questo atto.

Dopo giorni di attesa interminabile rinchiusi in quel buco fetido di stanza, venivano messi in fila per essere imbarcati sulle navi schiaviste per la grande traversata che durava dai sei ai nove mesi, a seconda delle condizioni atmosferiche. Una volta li, venivano ispezionati da un medico e separati: i prigionieri maschi erano incatenati insieme a coppie per risparmiare spazio: la gamba destra di un uomo legata alla gamba sinistra del successivo. Donne e bambini invece, avevano un po’ più di spazio. Le donne e le ragazze salivano a bordo delle navi nude, tremanti e terrorizzate, spesso pressoché esaurite per il freddo, la fatica e la fame, in preda alle maniere rudi e alle violenze degli schiavisti. Chi non ce la faceva più a sopportare le atrocità, si gettava di sua volontà nel mare. Stesso mare in cui molte donne hanno gettato i propri figli per renderli liberi. “I wondered how many of us would end up in the deep” si chiedeva Aminata, una delle sopravvissute, nel romanzo The book of negroes di Lawrence hill; romanzo frutto di registri e diari del 16° e 17° secolo e dall’omonimo documento storico conservato nell’archivio nazionale in Kew.

Nell’abisso dell’Atlantico, ci sono un interminabile numero di africani, nostri antenati di cui ci dobbiamo riccordare. La grande traversata dell’oceano era un vero e proprio inferno così come lo era il destino finale dei nostri antenati. Chi sopravviveva alla traversata e alle dure condizioni di vita sulle navi, veniva schiavizzato a vita nelle Americhe. E tutto il resto è storia.
Niamke N. Lynda

Di Lynda Niamke

Dottoressa in Lingue e culture per l’editoria e in Giornalismo e cultura editoriale. Nata in Costa d'Avorio trasferitasi in Italia all'età di 8 anni, vi ha seguito tutta la sua formazione scolastica. L' amore per l'Africa, la port a fare un'esperienza in Ghana, dove perfeziona quelle che sono le sue conoscenze e competenze orali e tecniche nell'ambito del giornalismo.

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